La coscienza è un istinto – Il legame misterioso tra il cervello e la mente – Michael S. Gazzaniga

Autore: Michael S. Gazzaniga

Anno: 2019

Ne La coscienza è un istinto – Il legame misterioso tra il cervello e la mente (Raffaello Cortina Editore, 2019), Michael S. Gazzaniga, uno dei maggiori neuroscienziati contemporanei, affronta con piglio deciso quello che, adottando la terminologia di David Chalmers, noto e influente filosofo della mente, viene ormai comunemente definito come l’hard problem: il problema della coscienza. Schopenhauer lo considerava un weltknoten, un nodo del mondo fra i più difficili da sciogliere, mentre Du Bois-Reymond ne parlava senza mezzi termini come di un enigma insolubile: ignoramus et ingnorabimus. Si tratta nientemeno che del secolare problema mente/corpo, declinato in epoca moderna come problema mente/cervello. Come fa il cervello a produrre la mente? Come si passa dai neuroni all’esperienza cosciente? Come nasce la mente dalla materia? Nonostante l’impressionante messe di dati clinici e sperimentali attualmente in nostro possesso, resi disponibili soprattutto dalle nuove tecniche neuroscientifiche d’indagine, Gazzaniga afferma che siamo ancora privi al riguardo di una teoria soddisfacente. Per riprendere le parole di Chalmers, siamo progrediti moltissimo nell’easy problem, quello di individuare i presupposti cerebrali dell’attività cosciente, ma siamo ancora in alto mare per quanto riguarda la spiegazione di come strutture e processi neurali diano vita al variegato e multiforme mondo della nostra esperienza soggettiva. L’ipotesi che propone l’Autore si inserisce in una cornice rigorosamente naturalistica, è un’audace congettura in senso popperiano e consiste nel ri-collocare la coscienza nell’ambito biologico, definendola nella fattispecie come un istinto, con una chiara presa di posizione antidualistica e antimetafisica.

Al centro dell’attenzione di Gazzaniga non è dunque la mente delle scienze cognitive, fondata sul concetto di inconscio cognitivo (o neurocognitivo), che negli ultimi decenni è venuto ad aggiungersi a quello di inconscio psicoanalitico. Tale concezione presuppone che nel nostro cervello si svolgano una miriade di processi subpersonali di elaborazione dell’informazione, inaccessibili al soggetto e operanti al di sotto della soglia della coscienza, eppure a tutti gli effetti mentali. Non è la mente intesa in questo senso l’oggetto dell’indagine, bensì la mente in senso tradizionale, la coscienza, l’esperienza soggettiva in prima persona che gli esseri umani (e verosimilmente molte specie di animali) hanno di sé e del mondo. Il mutamento di paradigma che ha avuto luogo nelle scienze cognitive – intese come le discipline del mentale nel loro insieme, ivi incluse le neuroscienze – in linea di continuità con le teorizzazioni psicoanalitiche, ci ha ormai abituati all’idea che la nostra mente opera primariamente e prevalentemente in maniera inconscia. Eppure è alla cosiddetta “coscienza fenomenologica” – come viene ribattezzata nell’abito del dibattito contemporaneo sul mentale – al quel variopinto mondo di sensazioni, percezioni, sentimenti, pensieri e fantasie che caratterizzano la nostra esperienza quotidiana che si rivolge l’attenzione dell’Autore, quasi a suggerire che la mente in senso proprio, la mente par excellence è questa. E’ dunque alla mente “cartesiana”, non certo nelle sue connotazioni metafisico-dualistiche, ma solo nella misura in cui essa coincide con la coscienza, che si rivolge il discorso, sia pure concependola come emergente da un universo inconscio a essa antecedente e inaccessibile e non considerandola come in primis “cogitante”, ma piuttosto “senziente”. Né è prova l’uso quasi sinonimico che Gazzaniga fa dei termini “mente” e “coscienza”, recuperando, in un’ottica semiaristotelica, il concetto di causa finale, come a voler affermare che è vero che il cervello opera a nostra insaputa una serie infinita di computazioni, ma che sembra anche che tutto ciò trovi il proprio fine o compimento nella produzione dell’esperienza cosciente.

Della difficoltà dell’hard problem  l’Autore è perfettamente consapevole, come facilmente si evince dal sottotitolo del volume, che molto opportunamente, a proposito del legame fra il cervello e la mente-coscienza, parla di “mistero” e come egli non perde occasione di rammentare nel corso delle sue argomentazioni. A ciò concorre in maniera significativa anche l’inquadramento storico dell’argomento, di cui Gazzaniga traccia la genesi e l’evoluzione fin dall’antichità, mostrando le difficoltà che le menti migliori hanno dovuto affrontare imbattendosi in esso. Del dibattito sulla coscienza, prima ancora delle recenti vicissitudini psicologiche e neuroscientifiche, precedute da interessanti scorci di storia della medicina e della neurologia, sono illustrati gli antecedenti filosofici, che vengono esposti con la competenza, la passione e il rispetto che generalmente i grandi scienziati nutrono nei confronti della filosofia. Eppure, la consapevolezza della difficoltà dell’impresa non impedisce all’Autore di prendere posizione sull’argomento in modo deciso, dichiarando senza mezzi termini la sua opposizione a qualsiasi forma di dualismo, comprese le interpretazioni dualistiche dell’emergentismo di cui egli stesso, sulle orme del suo maestro Sperry, si fa sostenitore nel volume. Di altro non si tratterebbe che della tesi relativa al controllo che i livelli più alti e complessi di un sistema, che sono il risultato non deterministicamente prevedibile dell’azione dei livelli inferiori, esercitano su questi ultimi, senza alcuna postulazione di sostanze mentali, spiriti disincarnati o fantasmi nella macchina di cartesiana memoria. E’ sulla base di tale naturalismo coerente e programmatico che l’Autore articola la propria concezione dell’emergere della mente-coscienza dall’attività neurale.

Il primo e più significativo pronunciamento di Gazzaniga è a favore della modularità del cervello: nonostante le molteplici sottolineature dell’importanza delle connessioni, egli ritiene schiaccianti le prove a favore della modularità dell’organizzazione cerebrale. Il nostro cervello è composto da una miriade di moduli e sottomoduli che, sebbene fra loro fittamente interconnessi, operano in maniera altamente indipendente, distribuita e parallela nell’elaborazione dei più svariati tipi di informazione. Le prove cliniche e sperimentali attestano al di là di ogni dubbio che vi sono centri specializzati che presiedono a funzioni specifiche, come le diverse modalità sensoriali della percezione, la comprensione e la produzione linguistica, con tutte le relative sottofunzioni, dal riconoscimento dei volti, alla percezione del colore o del movimento, all’archiviazione e al recupero mnestico dei nomi propri e così via. La struttura modulare del cervello, organizzata in una complessa architettura stratificata, depone a favore del carattere fortemente decentrato delle sue funzioni. Su questa base l’Autore avanza la sua vera ipotesi forte, antecedente ed empiricamente meglio fondata dell’ipotesi che la coscienza sia un istinto, che appare viceversa più astratta e speculativa. La si potrebbe definire l’ipotesi della “modularità della coscienza”, della sua diffusione quasi ubiquitaria nel cervello, che egli ricollega alle teorie di Autori come Panksepp e Damasio sull’interazione fra le strutture sottocorticali e corticali nella produzione della nostra esperienza emotivo-cognitiva di noi stessi e del mondo.

La coscienza non appare per Gazzaniga separabile da una forma embrionale di autocoscienza, non tanto – per utilizzare la terminologia di Damasio – dal “Sè autobiografico”, dall’autocoscienza umana adulta pienamente sviluppata mediata dal linguaggio e dalla memoria, quanto piuttosto dal “Sé nucleare”, da quella forma elementare di autocoscienza che nasce dall’interazione con l’oggetto. Tale autocoscienza primaria, come mostrano i dati clinici offerti dall’Autore, non sembra avere alcuna sede centrale e privilegiata nel cervello umano. Non esiste alcuna struttura centrale, alcuna rete neurale specifica deputata alla produzione della coscienza così intesa, non esiste nel nostro cervello alcun santo Graal, alcun luogo specifico del Sé o del soggetto, alcuna materialistica versione della ghiandola pineale cartesiana. Come mostrano i pazienti affetti da morbo di Alzheimer, la coscienza sembra una qualità molto resistente e persistente, sebbene in forma verosimilmente alterata, capace di sopravvivere alla massiccia distruzione del tessuto corticale e alla perdita progressiva di importanti funzioni. Mentre l’impressionante caso dei pazienti split-brain, a lungo seguiti clinicamente dall’Autore e dal suo maestro Sperry, sottoposti a resezione del corpo calloso e dunque alla disconnessione dei due emisferi, mostra che come minimo esistono due forme di coscienza, di autocoscienza o di soggettività localizzate nei due emisferi. E non diverse sono le conclusioni tratte dai soggetti colpiti da neglect (negligenza spaziale unilaterale) a seguito di danno al lobo parietale destro, che evidenziano una totale inconsapevolezza di tutto ciò che è situato nell’emicampo visivo controlaterale alla lesione, mentre appaiono perfettamente consapevoli di quanto avviene nell’altra metà del campo.

Tutto ciò induce Gazzaniga a concludere che la coscienza o autocoscienza è una proprietà altamente locale e distribuita del cervello, in linea di principio emergente come prodotto finale dell’elaborazione di ogni modulo o gruppo di moduli, come egli cerca di rendere intuitivamente comprensibile attraverso una suggestiva metafora. Come nel caso di una pentola d’acqua in ebollizione, della complessa e ininterrotta attività cerebrale emergerebbero di volta in volta alla superficie della coscienza solo alcune “bolle”, imponendosi alla nostra attenzione su altre possibili “bolle” e allineandosi le une alle altre secondo l’asse temporale, dandoci l’impressione di un flusso continuo, proprio come avviene in un film attraverso la successione dei diversi fotogrammi. Di particolare importanza sono i moduli sottocorticali coinvolti nella produzione delle emozioni, capaci di fornire quel sentimento di soggettività che per l’Autore rappresenta una componente primaria della coscienza. La prima e fondamentale forma di autocoscienza sarebbe dunque dovuta all’azione delle strutture sottocorticali e troncoencefaliche, sede dei sistemi emotivo-motivazionali primari di Panksepp e dei “sentimenti primordiali” di Damasio (origine del “proto-Sé” antecedente al “Sé nucleare”), cui si verrebbero poi ad aggiungere le forme più sofisticate della cognizione rese possibili dall’attività della corteccia. Per la coscienza o autocoscienza primaria quest’ultima non sarebbe dunque necessaria, come dimostrano secondo Gazzaniga i casi dei bambini affetti da anencefalia (nati privi di corteccia) o da idranencefalia (con uno sviluppo corticale insufficiente), capaci di provare emozioni, di avere un senso perlomeno minimale del Sé e di stabilire un rapporto elementare con l’ambiente esterno.

Un’ipotesi ardita e suggestiva, sebbene certamente non inedita, quella dell’assenza di un centro del Sé a livello cerebrale, che suggerisce la complessità dei rapporti fra livelli di realtà diversi, con una sorta di paradossale dissoluzione del soggetto proprio là dove, secondo una visione forse un po’ troppo semplificata e ingenua, ci si aspetterebbe di trovarlo, nel cervello. A tale ipotesi, fondata su solide sebbene verosimilmente non incontrovertibili argomentazioni empiriche, Gazzaniga collega la tesi palesemente più speculativa che rende conto della produzione dell’esperienza cosciente a partire dall’attività dei neuroni attraverso il principio di complementarità di Bohr. Tale principio, proposto dal grande scienziato per la meccanica quantistica, permetterebbe di superare il dualismo mente/cervello allo stesso modo in cui consente di risolvere quello onda/corpuscolo. Si tratterebbe di due facce della stessa medaglia, due modi diversi di presentarsi di una stessa realtà, principio che l’Autore estende alla comprensione della distinzione fra materia vivente e non vivente e dell’emergere della coscienza da quest’ultima sotto forma di istinto. Una conclusione che ha il merito di proporre un’impostazione del problema mente/cervello in linea con l’ontologia delle scienze naturali e in definitiva della fisica, ma che appare al momento ancora in attesa di un’adeguata articolazione e di un valido sostegno empirico.

Queste in estrema sintesi le tesi di Gazzaniga, che offre una serie ricchissima di informazioni cliniche e sperimentali che moltiplicano i vertici da cui osservare la relazione mente/cervello, in un testo che abbonda di pensiero, di cultura e di coraggio speculativo, sebbene siano forse più i problemi aperti che quelli risolti e alcune argomentazioni suscitino qualche perplessità. L’hard problem riceve certamente un inquadramento suggestivo e coerente con l’impostazione naturalistica di fondo, configurando quello che potrebbe essere concepito come un interessante programma di ricerca, ma è ben lontano dall’essere risolto. Come dai neuroni si passi alla coscienza fenomenologica, come il cervello produca la mente, come dalla materia si arrivi alla nostra esperienza soggettiva di noi stessi e del mondo rimane un mistero. Mentre il principio di complementarità risulta in fisica abbondantemente sostenuto dall’osservazione, la sua invocazione per il problema mente/cervello appare al presente ancora un’estrapolazione di carattere eminentemente speculativo. L’equiparazione di coscienza e autocoscienza, che di fatto emerge dall’insieme delle argomentazioni dell’Autore e che è peraltro sostenuta da altri autorevoli studiosi, non è argomentata con la dovuta chiarezza ed è presentata in modo troppo semplificato. Appare inoltre poco comprensibile l’assenza di riferimenti alla concezione di Dennett della coscienza come “fama nel cervello” temporaneamente acquisita da determinati processi neurali in competizione con altri, cui chiaramente la metafora delle “bolle” che salgono in superficie imponendosi su altre possibili “bolle” si avvicina molto.

Da ultimo, sebbene il discorso non verta sulla psicoanalisi, delude non poco la sua liquidatoria svalutazione, che appare più riconducibile alla ricezione di un luogo comune scientifico-culturale tanto diffuso quanto superficiale che a una seria e approfondita disamina. La psicoanalisi, identificata tout court con la teoria freudiana, sarebbe stata utile in passato come “apripista” delle scienze cognitive, mentre oggi non sarebbe nient’altro che un inutile ferrovecchio. E’ da sottolineare non solo la mancanza in proposito della benché minima argomentazione o citazione bibliografica, che permetta di capire quali siano i difetti epistemici che l’Autore rimprovera alla disciplina, ma anche l’incongruenza dell’atteggiamento verso di essa con lo stile complessivo e la profondità e correttezza delle analisi contenute nel volume. Non è certo in discussione la possibilità di criticare la teoria freudiana, ma affermare che è superata senza assumersi l’onere di mostrare dove e perché avrebbe fallito non è epistemologicamente corretto. Due in estrema sintesi sono i motivi per cui una teoria, un paradigma o un programma di ricerca possono essere dichiarati superati: o perché sono stati ripetutamente smentiti dall’osservazione, come nel caso della teoria tolemaica; o perché si sono rivelati non scientifici, non passibili di significativo controllo empirico, in termini popperiani non falsificabili. E il dibattito sulla psicoanalisi è a questo proposito troppo noto perché un grande scienziato come Gazzaniga possa permettersi di ignorarlo.

E’ superata perché non è falsificabile, come ha detto Popper? O Popper è in errore e la psicoanalisi, o almeno la teoria freudiana è falsificabile, ma le osservazioni cliniche addotte a suo sostegno non sono epistemicamente affidabili, come ha detto Grünbaum? E’ superata perché è contraddetta dalle neuroscienze? E su quali punti? Sulla base di quale teoria della relazione fra le due discipline? O non è affatto superata, ma deve solo consolidare il suo statuto scientifico? E che dire delle teorie postfreudiane? A nessuno di questi interrogativi la breve ma liquidatoria trattazione dell’Autore consente di rispondere. Un motivo di più per sottolineare la complessità e la problematicità della relazione fra la psicoanalisi e le neuroscienze, che non coincide soltanto con gli orizzonti sinergici che la neuropsicoanalisi sembra dischiudere fra le due discipline, ma che contempla un ventaglio molto più ampio di posizioni e atteggiamenti, dei quali alcuni utili ed euristicamente stimolanti per la nostra disciplina, altri consistenti in “verdetti” tanto aprioristicamente svalutativi quanto inservibili ai fini di un dialogo fecondo.

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