Il Bene e il Male

La tesi che sosterrò, in questa trattazione, è che il BENE e il MALE  acquistano senso in relazione alla comunità a cui ognuno sente di appartenere. Per alcuni la comunità di appartenenza può essere la famiglia, per altri la loro tribù, per altri l’intera popolazione di una nazione, per gli ebrei gli appartenenti alla razza ebraica, per i musulmani coloro che hanno fede nell’Islam; e per un vero cristiano (o, più in generale, per una persona veramente altruistica sociale) dovrebbe essere tutta l’umanità. Questo senso di appartenenza a una comunità, a volte diventa “tribale” (nel senso di appartenere a una tribù), con risvolti negativi. E come ha scritto un noto commentatore degli Stati Unita d’America, è simile al TIFO per una squadra di calcio, ovvero anche se la squadra perde, si continua a fare il tifo per essa e si attaccano le squadri rivali, in modo sentimentale e non razionale.

Nel 2008 ho pubblicato un breve saggio sull’argomento (ripreso poi nel 2011), che ha ricevuto da parte di filosofi, teologi ed antropologi un discreto apprezzamento. E da questo mio saggio sono estratte molte delle cose che esporrò.

“Il concetto di bene e di male sono innati nella mente dell’uomo? Marc D. Hauser professore di Psicologia, Biologia Evolutiva e Antropologia Biologica alla Harvard University, è convinto che sia così; e nella sua conferenza di domenica 28 ottobre 2007, in occasione del Festival della Scienza, iniziò con una premessa: «la mia indagine è concentrata sulla facoltà morale, ovvero sulla formulazione di un giudizio su un comportamento e non sull’azione che ne consegue. Gli approcci alla questione prevedono un dominio delle emozioni in questo campo, come sosteneva Hume, un approccio totalmente razionale, previsto da Kant, oppure una sintesi dei due. In ogni caso la formulazione del giudizio seguirebbe al ragionamento o all’emozione». L’ipotesi di Hauser è diversa, e decisamente rivoluzionaria: «vorrei dimostrare che le regole morali hanno una radice profonda e inconscia, una sorta di “grammatica morale universale” comune a tutti gli uomini. In pratica emozioni e ragionamenti sono successivi alla formulazione del giudizio morale». Per provare questa teoria Hauser ha fatto ricorso a dilemmi artificiali presentati in un “Moral Sense Test”, nel quale si chiede al soggetto intervistato di esprimere un giudizio su una situazione. Il test, concluso da oltre 250.000 individui provenienti da 120 nazioni, è accessibile su Internet (moral.wjh.harvard.edu) ed è analizzato in dettaglio sul più recente libro dello psicologo, “Menti morali” (Il Saggiatore, 2007). «Dai risultati si intuisce che il male come fine è ovviamente percepito peggiore di un male collaterale, e che il danno causato da un’azione o da contatto diretto è peggiore di quello causato da omissione e contatto indiretto. E’ tuttavia sorprendente notare che molte di queste scelte non hanno una spiegazione razionale: effetti e i benefici risultano identici ma la stragrande maggioranza del campione risponde nello stesso modo, indipendentemente da nazionalità e religione».

Hauser si è chiesto a questo punto se i membri di una cultura primitiva avrebbero risposto allo stesso modo ai suoi test, adeguatamente modificati per risultare comprensibili. «Abbiamo condotto il nostro esperimento sugli indiani Kuna a Panama. Il risultato è sorprendentemente simile a quello ottenuto dai test su Internet. Anche per i Kuna la differenza tra azione diretta ed effetto collaterale è evidente, anche se in misura minore rispetto a noi. A questo punto abbiamo proposto il test a pazienti con lesioni al lobo frontale del cervello, che presiede alle emozioni. Anche questi rispondono in modo molto simile a quelli sani». Hauser arriva alle conclusioni: «la capacità del cervello di formulare giudizi su bene e male è quindi inconscia e indipendente dalle emozioni. Ne risulta che queste ultime e la ragione influiscono certamente sul comportamento, ma non sulla formulazione del giudizio morale. Molte azioni di carattere politico e legale, che fanno parte del background culturale di un paese, non hanno quindi effetto sul nostro concetto di bene e di male, che è lo stesso per tutti».”

Una spiegazione teorico-scientifica di quanto espresso da Hauser, l’avevo già pubblicata, evidenziando che la natura biologica, nella sua evoluzione, mette in atto delle sperimentazioni, in primo luogo per meglio perpetuare la specie, adattandosi all’ambente, e in secondo luogo per meglio autoconservare il singolo organismo. Se applichiamo questi concetti elementari all’umanità, possiamo dedurre cos’è il MALE e cos’è il BENE per l’intera umanità, indipendentemente dalle problematiche morali e religiose. Sappiamo infatti, tramite le neuroscienze, che le EMOZIONI e i SENTIMENTI (paura, amicizia, amore, etc.) sono degli strumenti sperimentati e selezionati dall’evoluzione per meglio rispondere all’ambiente, alle interazioni tra gruppi familiari, alle interazioni tra individui dello stessa comunità ed alle interazioni tra eventuali nemici della comunità. Tutte le emozioni e i sentimenti hanno, quindi, il FINE ULTIMO di perpetuare meglio la specie e di provvedere al miglior equilibrio psicofisico dell’individuo.

Richard Dawkins“, nella sua opera più nota, Il gene egoista, pur mantenendo un impianto complessivo evoluzionista, identifica nel gene, anziché nella specie, il soggetto principale della selezione naturale che conduce il processo evolutivo. Dawkins, infatti, afferma che: “L’unità fondamentale della selezione, e quindi dell’egoismo, non è né la specie né il gruppo e neppure, in senso stretto l’individuo, ma il gene, l’unità dell’ereditarietà.”, aggiungendo, inoltre, che studiosi e scienziati a lui precedenti hanno sbagliato tutto perché sono partiti dal presupposto che la cosa più importante dell’evoluzione fosse il bene della specie(o del gruppo) invece che il bene dell’individuo (o del gene). A questa legge generale sembra opporsi l’evoluzione degli Insetti sociali (Termiti, vespe, api e formiche). Qui sembra che ci sia una “sfida” al concetto di selezione naturale, determinato dall’ambiente, per cui individui con caratteristiche diverse hanno un diverso successo riproduttivo. Gli insetti sociali mostrano una caratteristica che, a prima vista, sembra incompatibile con la visione di Dawkins. Infatti, le femmine delle api sono predisposte a “rinunciare” alla riproduzione se si sviluppano in celle normali e sono esposte al feromone della regina. Tale caratteristica ereditaria porta, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un successo riproduttivo nullo. Sappiamo inoltre che gli insetti sociali discendono da specie solitarie, in cui ogni individuo sviluppa la capacità riproduttiva. Lo sviluppo di tali comportamenti sociali rispecchia un caso particolarmente eclatante di altruismo, ossia di comportamenti che riducono il successo riproduttivo di chi li mette in atto, a vantaggio di consanguinei. Molti naturalisti cercano di spiegare questa apparente contraddizione, facendo dei ragionamenti per cui la rinuncia a prolificare, per permettere ad uno stretto consanguineo di avere molti discendenti, è una “strategia” premiata dalla selezione naturale se la quantità di propri geni che un individuo trasmette “indirettamente” è maggiore di quella che trasmetterebbe riproducendosi da sé. Nel caso delle api, la regina che si riproduce è madre o sorella delle operaie che la aiutano, e produce molti più discendenti di quanti potrebbe produrne un’ape solitaria. Sotto un certo aspetto, dobbiamo anche considerare che gli insetti sociali si comportano come tante cellule, facenti parte di un unico organo (la collettività) e il bene comune della comunità viene anteposto a quello dell’individuo. E a tal proposito, negli ultimi anni è venuto alla luce un meccanismo che potrebbe spiegare in un modo del tutto imprevisto l’origine delle diverse aggregazioni sociali di individui sperimentate dall’evoluzione biologica. Secondo Jean Claude Ameisen si tratta dalla possibilità di scatenare la morte prima del tempo nelle entità biologiche che si organizzano in società, che si tratti di colonie batteriche, o di insetti sociali o animali multicellulari. La tesi di Ameisen è che l’apoptosi o morte cellulare programmata, vale a dire la morte “prima del tempo”, sia la chiave per spiegare l’evoluzione e la storia individuale delle strutture multicellulari differenziate e complesse, come sono i corpi animali, nonché di alcune forme di organizzazione sociale di particolare successo, come le popolazioni di microrganismi o le società degli insetti. Mentre le cellule che muoiono per necrosi nel corso delle reazioni infiammatorie esplodono, nell’apoptosi la membrana cellulare non si rompe e si osserva una sorta di collasso e frammentazione direttamente all’interno della cellula. Da diversi decenni si sapeva che la morte delle cellule nel corso dello sviluppo serve a scolpire la forma del corpo, per esempio quando si devono separare le dita della mano. Nella seconda metà degli anni Ottanta si è quindi dimostrato che la morte cellulare viene utilizzata per selezionare le popolazioni di linfociti che sovrintendono al controllo del sé immunologico e per strutturare le reti nervose che incorporano il sé psichico. La scoperta che questa morte è programmata e controllata da geni e proteine particolari attraverso un meccanismo che sopprime l’azione di specifici esecutori del suicidio, normalmente presenti nelle cellule, ha portato alla conclusione che le cellule hanno bisogno di segnali dal contesto sociale in cui si trovano per non suicidarsi. Si è poi visto che l’acquisizione dell’incapacità di suicidarsi da parte delle cellule è uno dei passaggi cruciali nella progressione delle cellule tumorali verso la malignità fatale, ma anche dell’insorgenza delle malattie autoimmuno. Per contro, il suicidio cellulare attivato in modo sbagliato può causare il Parkinson o l’Alzheimer. L’egoismo genetico sembra così avere la massima esaltazione nel TUMORE (o neoplasia), neoformazione di tessuto costituito da cellule atipiche modificate rispetto alle normali. La malattia tumorale si sviluppa per clonalità, per mancanza di differenziazione cellulare e svincolata dai meccanismi di regolazione che operano nell’organismo normale.

Dawkins, quindi, non aveva tenuto conto del fatto che la natura aveva prima creato organismi unicellulari, per poi sperimentare organismi pluricellulari che meglio rispondevano alle caratteristiche di sopravvivenza. Un organismo pluricellulare è in effetti una comunità di singole cellule che concorrono al loro bene comune. Così, all’EGOISMO del gene si affianca l’ALTRUISMO tra cellule appartenenti allo stesso organismo.

Il passo successivo della NATURA, abbastanza sottovalutato, è stato quello di SPERIMENTARE gli insetti sociali (api, formiche e termiti), che hanno avuto un grandissimo successo, tanto che le formiche, che esistono da centinaia di milioni di anni, rappresentano oggi il 10% delle biomasse animali e il 50% delle biomasse degli insetti.

Una conferma della la tesi che i concetti di BENE e MALE siano innati in noi, la troviamo anche dall’antropologo Robert Sussman (della Washington University) che ha presentato, nel 2006, la teoria sviluppata nel suo libro “Man the Hunted: Primates, Predators, and Human Evolution”. Secondo Sussman, contrariamente alla tesi corrente che considera la capacità di combattere e di aggredire con violenza come un carattere originario degli ominidi, i nostri antenati hanno vissuto un lungo periodo come prede, sviluppando solo in seguito la capacità di associarsi per difendersi dai predatori, e successivamente le attuali capacità aggressive. In particolare l’Australopithecus afarensis, un ominide alto 1.2 metri, non disponeva di armi, non conosceva il fuoco e non aveva una dentatura adatta a nutrirsi di carne; per milioni di anni fu cacciato da numerosi predatori, tra cui un canide della taglia di un orso, tigri dai denti a sciabola, iene e coccodrilli. Circa il 5% dei suoi fossili presentano segni che mostrano come fosse stato ucciso da predatori; attualmente, si osserva che i grandi predatori uccidono all’incirca la stessa percentuale di individui delle specie predate, come scimpanzè e gorilla. Anche gli umani, d’altronde, sono tuttora preda di specie come coccodrilli, tigri, orsi e coguari. Sussman conclude che il nostro antenato fu costretto ad associarsi in gruppi per potersi difendere, come fanno ancora oggi tutti i primati attivi durante il giorno e soggetti ai predatori. Da qui sarebbe nata l’attuale capacità di vivere in società e cooperare pacificamente.

In natura e in un organismo, il MALE ASSOLUTO è il TUMORE, ovvero delle cellule che impazziscono e distruggono le altre cellule dello stesso organismo, che porterà irrimediabilmente alla morte di tutto l’organismo e delle cellule tumorali stesse. Nell’umanità il male assoluto è quello che porta alla distruzione dell’altruismo sociale universale, e il NAZISMO, ispirato, consapevolmente o inconsapevolmente, dal filosofo Nietzsche (al pari del “grande tentatore” nella concezione cristiana del male) lo può ben rappresentare. Dal punto di vista filosofico-psicologico il NAZISMO si basò sulla falsa convinzione che la razza ariana fosse decisamente diversa dalle altre razze per cui doveva essere preservata e aveva il diritto di sottomettere ed annientare le altre razze, come in effetti fanno le colonie di formiche verso le altre colonie di formiche.

Il Male, però, è anche affascinante ed invitante, specialmente per le persone egoiste o che già posseggono una buona posizione di potere e/o economica sociale, altrimenti non potrebbe avere il suo grande successo (come nel concetto cristiano del diavolo, il grande tentatore).

A conferma di quanto sopra esposto, riporto anche un articolo pubblicato il 17 Dicembre 2007 su Repubblica, su una ricerca del Dipartimento di Psicologia della Hebrew University di Gerusalemme, secondo cui, la generosità avrebbe una matrice genetica. Il gene si chiama “AVPR1a”: in alcuni sarebbe più sviluppato rispetto ad altri, rendendo quindi i primi più altruisti dei secondi. Ariel Knafo, a capo dell’equipe di ricerca, ha spiegato sulla rivista specializzata Genes, Brain and Behavior come le persone portatrici di una precisa variante del gene “della generosità” abbiano una maggiore predisposizione a donare i propri soldi agli altri. Il gene in questione è già noto come regolatore della produzione dell’ormone “arginina vasopressina” che agisce sulle cellule cerebrali e regola il meccanismo dei legami sociali. Dalle analisi condotte nei laboratori israeliani è emerso che in certi individui una parte specifica del gene, detta “promotore”, risultava più lunga: più lungo è il promotore, più attivo è il gene in questione. Una scoperta sensazionale, a detta degli studiosi, perché si è sempre creduto che la generosità dipendesse dal contesto in cui si vive, dal benessere di cui si gode e da fattori culturali. “Questa è la prima prova di una relazione tra altruismo e Dna – ha detto Knafo al quotidiano britannico Daily Telegraph – ma ancora non sappiamo perché certe persone hanno il gene e altre no, né quante persone ce l’abbiano effettivamente”. Secondo la ricerca, i ragazzi con il gene della generosità più sviluppato sarebbero anche quelli con solidi valori, pronti a battersi per la pace nel mondo, la giustizia sociale e la salvaguardia dell’ambiente. Ancor più recentemente è stato verificato che un ormone (OSSITICINA) rende le persone più altruiste e disposte ad amare.

Una prova che, dal punto di vista dell’altruismo sociale, l’umanità è in una fase evolutiva.
E aggiungo la sintesi di un libro “Solitudine. L’essere umano e il bisogno dell’altro” di Cacioppo John T., Patrick William
“Essere soli è diverso dallo stare da soli o dal sentirsi soli. Il dolore cronico della solitudine è una ferita lacerante che può alterare il nostro equilibrio fisiologico. È un giogo che trasforma il bisogno insoddisfatto dell’altro in sensazioni, pensieri e comportamenti ostili. La solitudine non è una sensazione ineffabile, è qualcosa di ben radicato nella nostra biologia, che coinvolge il corpo in maniera totale, dalla circolazione del sangue alla trasmissione degli impulsi nervosi. Le immagini del cervello ottenute con le nuove tecniche di neurovisualizzazione mostrano che le sensazioni di emarginazione sociale e il dolore fisico condividono lo stesso meccanismo fisiologico. Ma per comprendere perché la solitudine ci fa soffrire bisogna scoprire il passaggio evolutivo dal gene egoista all’essere sociale. Perché Homo sapiens si è evoluto come specie superiore? John T. Cacioppo trova la soluzione nel “terzo adattamento”: i fattori decisivi del successo riproduttivo dell’uomo si fondano sull’empatia, sulla cooperazione e sui legami sociali. Privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni. In Solitudine, neuroscienze, genetica e psicologia evoluzionistica convergono, proponendo al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di una delle più diffuse malattie del nostro tempo. Dopo aver letto questo libro nessuno vorrà essere solo. E non lo sarà.”

RIFLESSIONI FILOSOFICHE E TEOLOGICHE
E’ molto probabile che questa evoluzione umana, in senso etico, non sia casuale, ma implicita nell’evoluzione dell’universo. In altre parole, ogni volta che si sviluppa in un pianeta dell’universo una forma di vita intelligente, dotata di ragione, astrazione e libero arbitrio, si riproduce un meccanismo simile. Da qui, questo concetto di BENE e di MALE è come se fosse un concetto implicito nella creazione, e quindi praticamente divino. IL TUTTO, OVVIAMENTE, IN RELAZIONE ALLA COMUNITA’ A CUI SI SENTE DI APPARTENERE, altrimenti vale lo stesso discorso per gli insetti sociali (insetti appartenenti alla stessa specie, ma a comunità diverse, anche se strettamente imparentate, sono spietate tra di loro)Concludo nel dire che, come in tutti i processi evolutivi, all’altruismo sociale ci si può anche allenare ed abituare; e questo compito è delegato a tutti gli uomini di buona volontà che ne hanno la possibilità per attuarlo per se stessi e per gli altri.

***

NOTA: I concetti espressi in questo mio breve saggio sono stati alla base del fatto che sono stato, nel 2011, l’ideologo e il promotore, insieme al Prof. Alessandro Bertirotti, di un Manifesto del futuribile, elaborato in un gruppo facebook, con oltre 100 intellettuali, tradotto successivamente in sette lingue:

MANIFESTO DEL FUTURIBILE per una Confederazione di movimenti umanitari

Questo gruppo nasce in seguito all’elaborazione di un Manifesto del futuribile:

CARTA per la creazione ed azione di una confederazione dei movimenti umanitari.
Preludio
Questa CARTA nasce in seguito a discussioni, scambi di opinioni ed idee che Facebook permette a tutti coloro che utilizzano tale mezzo per lo sviluppo della propria identità e di quella comune.
Di seguito sono evidenziati i punti teorici e programmatici che un gruppo di intellettuali italiani, preso atto che esistono nel mondo oltre 130.000 organizzazioni altruistico sociali ed ambientaliste, desidera pubblicare, con lo scopo di indicare una possibile “via per il futuro dell’umanità e del pianeta terra”.
Punti elenco teorici
• Il punto di partenza della CARTA è il punto di arrivo della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948 e della CARTA DELLA TERRA del 2000, nel senso che ciò che in esse vi è scritto costituisce il fondamento di qualsiasi altra azione propositiva e positiva in favore dell’umanità tutta e il pianeta nel quale abita.
• Per una concordanza universale fra gli uomini si assumono dello stesso valore intellettuale ed estetico, come morale ed etico generali, le idee di teismo ed ateismo, perché entrambe sono considerate come esercizio umano esistenziale e della mente nella costante risposta alle nostre origini, al percorso e al fine. In questo modo, tanto i credenti quanto i non credenti diventano espressioni delle stesse domande antropologicamente costruite dalla nostra specie circa l’invisibile ed il visibile.
• Non esiste, se non come necessità “attualmente biologica”, una differenziazione valoriale fra il femminile ed il maschile, la quale deve sempre e comunque tenere conto della carta dei Diritti Fondamentali dell’Umanità tutta.
• Uno degli scopi/non-scopo della vita umana è l’abbandono di tutte le forme di supremazia del più adatto verso il meno adatto, a vantaggio di interventi umanitari verso gli ignorati, i vulnerabili, i sofferenti.
• La sopravvivenza dell’umanità è sempre più strettamente legata ai fattori ambientali ed ecologici del nostro pianeta, e alle limitate risorse che ancora potrà offrire.
• Ogni essere tende alla crescita spirituale attraverso l’amore. Questo implica che ogni essere possa offrire spontaneamente un aiuto amorevole per la crescita di chiunque richieda conoscenza.
Obiettivi della CARTA
• Nascita della consapevolezza che l’altruismo sociale, la pace, la giustizia sociale, la salvaguardia dell’ambiente, la cooperazione tra i popoli e l’aiuto verso i più deboli, non fanno parte di una singola ideologa, filosofia o religione, ma sono patrimonio comune di tutti gli uomini altruisti e di buona volontà.

• Creazione ed azione di una confederazione di tutti i movimenti umanitari ed ambientalisti, presenti e futuri, che metta in primo piano solo le cose che uniscono (altruismo sociale e salvaguardia del pianeta) e in secondo piano tutte le singole ideologie, in modo che si possa raggiungere una “massa critica unitaria” in grado di incidere realmente nella gestione planetaria.

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 I membri di una comunità, in certe condizioni, possono, però, decidere se cooperare o meno, bilanciando egoismo e aderenza alle norme sociali.

Segnalo anche questo articolo di NEUROSCIENZE:

http://www.lescienze.it/news/2018/09/25/news/condivisione_cooperazione_regole_flessibili_hazda-4121329/

Riccardo Calantropio

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